Il Nostro Amico Vittorio Semino ci manda un bellissimo pensiero scritto da suo Cugino Umberto Semino
Domenica 6 marzo 2022.
Tengo la mano della mia figlia minore e percorro quelle vie del quartiere di Marassi che, nel giorno della partita del Genoa, si trasformano in scorci di “genovesità” punteggiati, anzi costellati di rossoblù. Sarà che è passato tanto, troppo tempo dalla mia ultima presenza allo stadio, fatto sta che mi coglie una riflessione: avendo l’accortezza di arrivare vicino al Ferraris con un po’ di anticipo, l’aria che si respira è quasi d’altri tempi: ragazzi che chiacchierano addentando un toccu de fugassa, anziani che parlottano rigorosamente in zeneize, signori e signore con bimbi e bimbe, insomma un popolo variegato e multiforme ma accomunato da una singolare malattia, che tra i sintomi annovera un’evidente colorazione, di almeno un indumento o parte di esso, in colori rosso e blu scuro, un eloquio dall’accento inconfondibile ed una incrollabile resistenza (o vocazione?) alla sofferenza.
Già, perché a presenziare la partita di oggi, tanto per cambiare, sono migliaia di genovesi consapevoli di andare all’ennesima “ultima spiaggia”; che di solito, qui sotto la gradinata nord, non significa che è l’ultima possibilità per accedere a qualcosa di sportivamente esaltante, come uno scudetto o l’ingresso in Europa, bensì si traduce in cardiopalma, catenaccio disperato o assedio all’ultimo cross per restare con le unghie nella massima serie.
E questa fiumana di gente lo sa: non è ingenuamente ignara, né spensierata. Sa perfettamente che prenderà posto in gradinata e imprecherà, che commenterà con il vecchietto davanti di quanto è “grammo” quello lì o con il ragazzo a fianco di quanto è stata malaccorta l’interpretazione arbitrale. E’ perfettamente consapevole, il genoano, di avere un debito con la sfortuna, tipicamente pali, traverse, errori arbitrali, squadra insipiente e gol degli ex, che è pressoché insormontabile.
Eppure lui c’é. Tifa, partecipa, sostiene la squadra, applaude quando un giocatore “grammo” ci mette l’anima ed esce dal campo con la maglia da strizzare. Perché quel giocatore è un tifoso, è un genoano. E’ una persona che sa combattere e soffrire.
Già, soffrire: sembra una brutta parola, e lo è; perché evoca uno stato d’animo negativo.
Ma quando, dopo aver sofferto tutti insieme e aggrappati ad una speranza ormai flebile, uno stremato bipede con il manto rossoblu butta la palla nella porta avversaria all’ultimo minuto, ecco, è lì che la sofferenza diventa apoteosi: lo stadio esplode, le persone si abbracciano, è un tripudio di brividi e bandiere.
Il mio problema, adesso, è: come faccio a spiegare a mia figlia tutto questo? Come racconto a lei, che per la prima volta si siede vicino alla Nord e si emoziona, che cosa significa essere genoani? Come posso essere convincente nel raccontarle che il tifoso genoano si esalta nelle difficoltà e ha una sorta di fede incrollabile, che lo accompagna sempre, nonostante tutto, e senza sapere perché?
Non posso. Devo solo sperare che cresca qui, tra i profumi di mare, basilico e focaccia, qui dove si dice “belin” come rafforzativo, nel bene e nel male. Devo sperare che impari a soffrire un po’, per apprezzare le piccole gioie della vita con umiltà. Devo sperare che il rosso, caldo e acceso, ed il blu, freddo e profondo, si mescolino anche nell’animo suo, per far parte della sua storia, del suo vissuto.
Nel frattempo, la partita è finita e il Genoa, che era costretto a vincere, non ha vinto. Ci ha provato, ma niente. La retrocessione è più vicina. La storia si ripete, la frustrazione sale. E’ un aspetto negativo per mia figlia? Qui a Genova, forse no.