Era l’estate del 1923, cioè l’estate successiva alla vittoria dell’8° titolo nazionale del Grifone, conquistato senza subire nemmeno una sconfitta, e il Genoa si trovava a Buenos Aires per affrontare niente meno che la Seleccion Argentina, al termine di un’epica tournée sulle due sponde del Rio de la Plata; la prima tournée della storia di un club italiano in Sudamerica.
Per la precisione, era il 9 settembre del 1923 e, in uno stadio “Barracas” gremito di 50.000 persone, fu lo stesso Presidente argentino Marcelo Torquato de Alvear a battere il calcio d’inizio per la Seleccion. I giocatori del Genoa, così come voi che leggete, lo considerarono un atto formale, e rimasero imbambolati a centrocampo, sotto i riflettori dei fotografi che immortalavano questo atto cerimonioso. I giocatori argentini continuarono però l’azione e andarono facilmente in gol. Nonostante le proteste genoane, l’arbitro Fernando Perez convalidò la rete del vantaggio albiceleste.
Il clima divenne incandescente, sia in campo che sugli spalti, e ne scaturì una partita nervosa. Il gioco di grande qualità dell’Argentina si infranse sull’arcigna difesa del Genoa degli invincibili, e la Seleccion non riuscì a segnare se non su assist…presidenziale! Alla contestata rete albiceleste rispose però un colpo di testa della mezzala genoana Aristodemo Santamaria, che fissò il risultato sul definitivo 1 – 1.
L’atteggiamento ultra-difensivo del Genoa non incontrava certamente il gusto degli Argentini, abituati già all’epoca ad un gioco offensivo e spettacolare. Tuttavia, alla fine della gara, i rossoblu uscirono dal campo sotto applausi scroscianti. Era sicuramente stata apprezzata la garra dei nostri 11 Grifoni, una qualità che a quelle latitudini non passa certo inosservata.
Tra il pubblico, inoltre, dovevano sicuramente esserci moltissimi Italiani e Genovesi, emigrati in Argentina e Uruguay per fuggire dalla miseria. Enrico Sardi, interno di centrocampo del Genoa che scese in campo quel giorno, aveva fatto parte di quell’esodo in tenera età e, nella bolgia dello stadio “Barracas”, si trovò sicuramente più a suo agio di altri suoi compagni.
Emigrato con la famiglia in Argentina, il genovese Sardi aveva infatti esordito nel mondo del calcio proprio con la maglia di un club di Buenos Aires: il General Kuroki (credo che solo gli Argentini possano avere la fantasia per dedicare una squadra al generale giapponese più temuto dai Russi nel 1905…).
Tornato in patria, Enrico Sardi si era fatto valere nelle fila dell’Andrea Doria, dove giocava anche Aristodemo Santamaria, eroe di quella esotica partita contro la nazionale Argentina. I due si erano poi trasferiti agli acerrimi rivali del Genoa nell’estate del 1913, esattamente dieci anni prima di questa impresa Sudamericana.
Il loro trasferimento in rossoblu fece clamore e viene ancora oggi considerato come l’inizio della storia del calciomercato in Italia. In realtà non si trattava del primo trasferimento del calcio italiano ma, fino a quel momento, i cambi di casacca erano sempre avvenuti senza suscitare grande scalpore, tanto che i tifosi potevano accorgersi della partenza di un loro beniamino e dall’arrivo di un nuovo giocatore solo a cose fatte, assistendo alla prima partita della nuova stagione. Questa volta, però, il trasferimento non passò inosservato e ne nacque anzi un caso nazionale: il caso di Enrico Sardi e Aristodemo Santamaria. A questo punto sarete curiosi ma, per narrare questa storia, dobbiamo andare con ordine.
Il caso Sardi e Santamaria: i precedenti
Nel 1912 il Genoa vantava già cinque titoli nazionali e il blasone imponeva alla dirigenza di interrompere il digiuno di vittorie che durava dal 1904, anno dell’ultimo trionfo. Da allora erano trascorsi già 8 anni, durante i quali il Grifone aveva sempre lottato per il titolo, dovendosi però accontentare del 2° o del 3° posto, spesso alle spalle della Pro Vercelli, che in quel periodo pareva inarrestabile.
Se non fossero bastati i risultati sportivi, ad acuire la rivalità tra le due società era lo stesso contesto dell’epoca. In anni in cui il nazionalismo tracimava da ogni articolo di giornale, invadendo totalmente il dibattito pubblico, una società come la Pro Vercelli, che vinceva un campionato dopo l’altro schierando esclusivamente giocatori vercellesi, rappresentava infatti la nemesi di un club fondato da Inglesi e dalla vocazione internazionale come il Genoa.
La dirigenza rossoblu, decisa a colmare il gap con la squadra piemontese, affidò la guida del Grifone all’inglese William Garbutt e diede inizio ad una vera e propria campagna acquisti. Il calciomercato, come lo chiamiamo oggi, non era però ammesso dal regolamento federale, che imponeva forti limitazioni al cambio di casacca dei giocatori: ci si poteva trasferire soltanto per motivi di lavoro. Fu così che gli attaccanti britannici Percy Walsingham e John Grant vennero assunti da due società carbonifere, la “Maresca” e la “Malfettani”, mentre al centrocampista James Mitchell, anche lui inglese, venne trovato un impiego nell’agenzia marittima “Coe & Clerici”.
Ovviamente queste manovre non passarono inosservate in federazione ma nessuno potè obiettare nulla, in quanto i nuovi innesti britannici del Genoa avevano regolare contratto di lavoro e residenza nel capoluogo ligure. Tuttavia i rinforzi non furono sufficienti per riportare a Genova il titolo di campione d’Italia e la stagione 1912-13 culminò con un nuovo trionfo dei bianchi della Pro Vercelli, che raggiunse così il suo quinto trionfo.
Il caso Fresia
Al termine del campionato, la dirigenza genoana si apprestò così a ripetere la strategia dell’anno precedente, con l’intenzione di rinforzare ulteriormente la rosa. Questa volta, però, il Grifone rivolse il suo interesse verso i nomi più importanti del calcio nostrano, probabilmente per rendere la squadra più italiana e meno attaccabile da parte dei nazionalisti.
La rosa della neonata Nazionale di calcio era allora infarcita di giocatori della Pro Vercelli. Il Genoa sembrò quindi rivolgersi agli elementi di spicco dell’Italia che non provenivano dalla squadra piemontese.
Alla corte rossoblu arrivarono così Attilio Fresia, centrocampista dell’Andrea Doria, e Renzo De Vecchi, giovane stella del Milan, che venne trasferito dalla Banca di Milano alla Banca Commerciale di Genova, con un lauto aumento di stipendio. Se per il giocatore rossonero filò tutto liscio, in quanto il trasferimento era legato ufficialmente a questioni lavorative, nel caso di Fresia qualcosa andò invece storto: non era infatti possibile giustificare le 400 Lire ricevute dal giocatore, che venne dunque accusato di professionismo e squalificato per due anni dal Consiglio Federale.
Fresia decise dunque di trasferirsi al Reading, in Inghilterra, dove il professionismo era stato sdoganato già nel 1885, diventando così il primo giocatore italiano della storia in terra d’Albione. Il Genoa venne invece punito con una multa di 1000 Lire, scongiurando penalizzazioni più determinanti sotto il profilo sportivo. Lo scandalo, però, era dietro la porta.
Il Genoa e il “sottil morbo” del professionismo
Nella stessa estate del 1913, come dicevamo, il Genoa ingaggiò infatti anche altri due elementi dell’arcigna rivale cittadina: i due prolifici centrocampisti Enrico Sardi e Aristodemo Santamaria. Il primo era un abile palleggiatore mentre il secondo aveva grandi doti in elevazione, come avrebbe dimostrato l’imperioso colpo di testa durante il match contro l’Argentina.
Proprio come Fresia e De Vecchi, i due giocatori dell’Andrea Doria erano nel giro della Nazionale, che si stava per dirigere a Vienna per giocare un match contro l’Austria, ma vennero esclusi a sorpresa dai convocati dell’Italia, poco dopo il loro trasferimento in rossoblu. Sulla Gazzetta dello Sport dell’11 giugno si esprimeva stupore per “l’esclusione all’ultima ora dei nazionali Sardi e Santamaria”; si sperava inoltre che fosse “stata provocata unicamente dall’impossibilità dei due giuocatori di abbandonare le loro abituali occupazioni”.
Sulle pagine della “rosea” ci si augurava inoltre che la punizione, appena comminata al Genoa per il trasferimento di Fresia, fosse stata sufficiente a scongiurare la diffusione e lo sviluppo di questo modo di operare molto britannico della dirigenza rossoblu. “Il colpo dato al professionismo”, scriveva la Gazzetta, “dovrebbe essere mortale. Di ciò nessuno avrà a dolersi. Si uscirà una buona volta dalla menzogna e da quel penoso dubbio che, giustificato per molti, incombeva ingiustamente su altri non pochi e lo sport del calcio uscirà notevolmente rafforzato nella disciplina minacciata seriamente dal sottil morbo”.
Il caso Sardi e Santamaria: il processo
Dopo qualche giorno, il sospetto che il Genoa fosse stato nuovamente colto in fallo divenne una certezza, così come si chiarì che l’esclusione dalla Nazionale di Sarti e Santamaria fosse dovuta proprio all’irregolarità del loro cambio di casacca. Per portare le due stelle doriane al Genoa, il presidente Geo Davidson aveva infatti sborsato 1.500 Lire ciascuno, nulla in confronto alle 24.000 Lire spese per De Vecchi ma comunque un bel gruzzolo.
Recatisi in banca per incassare l’assegno, Sardi e Santamaria ebbero però la sfortuna di trovare un cassiere tifoso dell’Andrea Doria, che li riconobbe immediatamente e capì al volo quello che stava succedendo. Adducendo motivazioni legate alle procedure bancarie, l’impiegato rinviò il pagamento al giorno successivo, in modo da guadagnare il tempo necessario ad avvertire la dirigenza doriana, che a sua volta portò immediatamente la questione all’attenzione della federazione nazionale.
Fu così che, durante la seduta del Consiglio Federale, tenutasi a Vercelli il 13 luglio 1913, andò in scena un vero e proprio processo. Sul banco degli imputati c’era ovviamente il Genoa, accusato di aver agito in barba alle norme federali in tema di professionismo, il “sottil morbo” di cui aveva parlato circa un mese prima la Gazzetta dello Sport. Il Grifone rischiava addirittura l’esclusione dal campionato, data la recidività dopo la condanna legata al trasferimento di Fresia.
A difendere il Genoa non si presentò il presidente in carica Geo Davidson, la cui origine inglese non avrebbe certo aiutato, dato il contesto fortemente nazionalista, ma l’ex presidente Edoardo Pasteur, che insieme al fratello Enrico rappresentava invece l’anima più italiana del club genovese.
Pasteur, fortunatamente per il Genoa, seppe scuotere la platea con un discorso che non negava la colpevolezza di chi, pensando di agire nel bene del club, aveva infranto il regolamento federale, ma prendendo al contempo le distanze da questi elementi “isolati” e che, a suo dire, nulla avevano a che fare con il Consiglio direttivo del Genoa.
Pasteur ricordò inoltre che il suo club si era sempre distinto per “il culto della correttezza sportiva”, mirando al primato nella competizione ma soprattutto a quello “d’ordine morale”. Infine, concluse mettendosi teatralmente nelle mani dei giudici, ai quali si rivolse dicendo: “altri hanno mancato, punitemi pure se in coscienza mi trovate e mi giudicate colpevole”.
Il caso Sardi e Santamaria: l’epilogo
Fortunatamente l’arringa fu sufficiente a convincere i presenti, in primis i dirigenti dell’Andrea Doria, che la società del Genoa non fosse direttamente coinvolta nella questione. Il club venne quindi nuovamente multato, senza subire le minacciate conseguenze in ambito sportivo, mentre Sardi e Santamaria vennero squalificati per due anni, che erano nulla rispetto alla prospettiva di terminare la loro carriera.
Andò decisamente peggio al cassiere che aveva denunciato i due giocatori, che venne licenziato per violazione del segreto professionale. Chissà che smacco per lui, quando apprese che la squalifica, comminata ai due ex giocatori della sua squadra del cuore, era stata addirittura ridotta. Sardi e Santamaria rimasero infatti lontani dai campi solamente un anno, facendo regolarmente parte della rosa del Genoa durante il campionato 1914-15, culminato con il titolo di campioni d’Italia. I due furono poi protagonisti anche dei due titoli genoani del dopo guerra, nei campionati 1922-23 e 1923-24.
Con buona pace del cassiere doriano, Enrico Sardi e Aristodemo Santamaria sarebbero arrivati a segnare 156 gol in due con la maglia del Grifone, scrivendo a chiare lettere i loro nomi nella lista dei migliori marcatori della storia del Genoa.
I due centrocampisti con il vizio del gol, per ironia della sorte, figurano inoltre nel tabellino dei marcatori di uno dei derby più umilianti della storia dell’Andrea Doria. Nella stracittadina di ritorno del campionato 1914-15, nella cornice infuocata della famigerata “Cajenna”, il Genoa inflisse infatti una sonora sconfitta per 8-0 ai rivali di sempre. Ad ulteriore onta, la partita si interruppe al 35’ del secondo tempo, dopo che ben cinque giocatori dell’Andrea Doria avevano abbandonato il loro stesso campo per lo sconforto.
Non vi nego di essermi chiesto se tra il pubblico doriano di quel giorno, che sciamò dallo stadio inferocito ed umiliato, ci fosse anche quel cassiere. Forse non lo sapremo mai ma poco importa; possiamo comunque immaginare la sua espressione, quando apprese che, in mezzo a quella pioggia di gol in cui era annegata l’Andrea Doria, c’erano anche una marcatura di Enrico Sardi e una doppietta di Aristodemo Santamaria.
Di lì a poco sarebbe scoppiata la prima guerra mondiale e ci sarebbero state altre battaglie da combattere, ben più cruente dei derby alla Cajenna, e anche altri problemi da affrontare, ben più gravi del professionismo calcistico. Come tutti sappiamo, il “sottil morbo” del professionismo non sarebbe comunque stato sconfitto; altri casi sarebbero infatti scoppiati, prima della regolamentazione del professionismo con la Carta di Viareggio del 1926.
Oggi ci è chiaro che il calcio, non solo quello italiano, avrebbe preso in ogni caso la stessa strada percorsa dal Genoa agli albori del calciomercato e, anche se non era facile da digerire per i puristi del dilettantismo, il calcio era comunque destinato a diventare una professione. Il football non era più solo un passatempo ormai da anni, anche se c’era chi fingeva di non vederlo, e certamente non poteva essere considerato tale in un club come il Genoa, dove quel pallone non era mai stato solo un gioco. Nessuno poteva però immaginare cosa sarebbe diventato il calciomercato, con le sue favole e i suoi orrori; da allora, forse, solo due cose sono rimaste le stesse: la gioia di chi accoglie un nuovo campione e la tristezza di chi si vede costretto a salutarlo.
Enrico Barbieri