Il RossoBlu di Geno(v)a
Sono un pochino provinciale, e in fondo me ne vanto. Non il provincialismo grottesco e puerile di chi si aggrappa al passato e al suo piccolo recinto per paura del mondo, del futuro. Il provincialismo sornione di chi si sente parte di una storia, di una strada, di un cielo. Non è chiusura, non è confine. E’ profondità.
Cosa vuol dire essere genovesi? Ah io non lo so, io non sono genovese. Io sono di Genova, ma non sono genovese. Sono un terrone. Si fa presto al giorno d’oggi a dire terrone, se hai origini a sud di Camogli. In effetti un pochino più giù. Portovenere? No, ancora un pochino. Siena? Eh magari. Certo, sono nato a Genova, cresciuto a Genova, ho studiato a Genova, vivo a Genova, lavoro a Genova, sogno a Genova, piango a Genova, rido a Genova. Suono a Genova, scrivo a Genova. Amo a Genova. Amo Genova. Ma il baricentro è più giù, anche se poca roba eh. Tra Montalto Uffugo, Cosenza, e Taurianova, Reggio Calabria.
Mille chilometri fa, e qualche spicciolo di vita.
Mamma, e papà.
Mi dispiace di avervi deluso, ma non potevo più portare questo peso da solo. Il mondo non è mai cambiato, siamo noi che dimentichiamo di guardare indietro, che rifiutiamo di rileggere le pagine della nostra storia. I miei nonni sono venuti a Genova quando i miei genitori nemmeno sapevano camminare, in cerca di un lavoro, di una speranza, di un orizzonte, di un futuro.
Oggi ho un lavoro, una speranza, un orizzonte, un futuro. Quello che tutti cercano, quello che tutti meritano, quello a cui tutti avrebbero diritto.
E’ tutto qui.
Mi ha sempre affascinato il legame delle persone con il luogo in cui nascono, o vivono. La lingua, i modi, i toni, i gesti. Mi sento cittadino del mondo, della Galassia, della Ionosfera, dell’infinito, del nulla, tuttavia ho sempre trovato intrigante la complessa rete di movimenti, comportamenti e relazioni che lega le persone che condividono un tetto, un quartiere, una città. Un cielo. C’è qualcosa di magico, magmatico e profondo a cui contribuiamo senza accorgercene e da cui siamo condizionati senza saperlo, che fa di una comunità quella comunità, e non un’altra. Che rende quello spazio… proprio quello spazio… e non un altro spazio. Che definisce un tempo, quel tempo, e non un altro tempo.
Ed anche se siamo miliardi di cellule, ognuno con la propria identità, bellezza, imperfezione, diversità, messi insieme, a piccoli gruppi, in un dato luogo nel tempo, siamo noi a creare quello spazio, quel tempo, quel modo, e quel mondo.
E’ così che guardo, è così che sento il mio tempo, ed è così che vivo a Genova.
Ma non parlo di Genova. Parlo del suo riflesso, di come i suoi attimi, i suoi colori, i suoi suoni, i suoi profumi, hanno fatto di Genova… Genova. E non un altro luogo.
Parlo di speranze, di promesse, di felicità, di tradimenti, di peccati, di cadute, di miserie, di grandezze, di amori, di dolori, di colori.
Soprattutto i miei colori, quelli di Genova, ed anche quelli del mio Genoa.
E non lo so, in effetti, se è quello che accade dentro a dare forma a quello che vediamo fuori, o è il contrario. Forse la verità è più semplice, forse è un gioco di specchi, dove dentro e fuori si cercano a vicenda.
Perché capire non è mai più importante di sentire. Ci ho messo molti anni a capire questa cosa. Non è facile per uno come me, con una formazione scientifica, accettare che non tutto possa essere inquadrato, circoscritto, spiegato. C’è tutto un mondo di emozioni, silenzi, attese, che non può essere afferrato, imbrigliato da definizioni più o meno rassicuranti. C’è uno strato di polvere, tra la nostra ragione e la nostra follia, che non ha dimensione, non ha struttura, non ha radici, e non ha pietà.
Di nessuno.
Dentro quello strato, dove non è possibile nascondersi ma dove è permesso prendere fiato ogni tanto, ci sono tutte le parole che non servono e quelle che non bastano, le emozioni che ci sfiancano e quelle che ci innalzano, le paure che ci tormentano e le gioie che ci sollevano, le domande che ci spaventano e le risposte che ci mentono, gli incubi che ci perseguitano ed i sogni che ci liberano, le lacrime che non scendono e le risate che ci salvano, gli occhi che ci osservano e gli sguardi che ci penetrano.
Lo spazio, il tempo, la vita, i sogni… la mia Genova.
Ed anche il mio Genoa.
Luca Canfora