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Chi era Renzo De Vecchi? di Enrico Barbieri

Quando si sente nominare Renzo De Vecchi, il suo nome viene quasi sempre seguito dall’appellativo “il figlio di Dio”. Con un soprannome così altisonante, non si può far altro che pensare a un attaccante. Se un giocatore è passato alla storia, venendo addirittura accostato all’Onnipotente, viene infatti quasi istintivo pensare a un bomber, uno che sfondava le reti delle porte avversarie mandando le folle in delirio; e invece quell’epiteto, che oggi può forse apparire un pò ingombrante, gli era stato attribuito per le sue grandi doti difensive.

Qualsiasi Genoano ha sentito parlare almeno una volta di Renzo De Vecchi, che però viene considerato una bandiera anche a Milano, sponda rossonera. Furono infatti i Milanisti i primi a vedere in lui una sorta di semidio, ben prima che decidesse di vestire la già gloriosa casacca del Grifone. Come ogni mito che si rispetti, anche quello di De Vecchi ha origini che si perdono nella notte dei tempi. Ripercorrendo la storia del calcio italiano non si può fare a meno di imbattersi nella sua figura, e data la notorietà che aveva al tempo è impossibile non chiedersi: “chi era Renzo De Vecchi?”.

 

Renzo De Vecchi: il figlio di Dio

Renzo De Vecchi nacque a Milano il 3 febbraio 1894 da una famiglia agiata. Il padre Enrico, sfegatato tifoso del Milan, lo incoraggiò nella pratica del football sin dalla tenera età. Si dice infatti che, come fanno tutti i papà innamorati del calcio, vedesse già nel giovane Renzo quelle spiccate doti calcistiche che ne avrebbero fatto un idolo delle folle. A differenza di molti padri, Enrico De Vecchi ebbe la fortuna di avere ragione, anche se, probabilmente, nemmeno lui immaginava che suo figlio sarebbe diventato per tutti…“il figlio di Dio”!

 

Il giovane Renzo tirò i primi calci in un piccolo club, il Minerva, ma da come giocava era chiaro a tutti che meritava una possibilità in una vera squadra. Fiducioso come solo un papà può essere, fu proprio il padre Enrico a dargli questa chance nel 1908, sobbarcandosi le onerose quote sociali per iscriverlo al Milan Football and Cricket Club.

Approdato in rossonero, il giovane De Vecchi apprese i rudimenti del calcio da Herbert Kilpin in persona, pioniere del calcio italiano al pari del nostro James Spensley. Si narra che una volta, in una partita tra titolari e riserve, De Vecchi si concesse il lusso di sradicare con veemenza il pallone proprio dai piedi del vecchio capitano e fondatore del Milan, ricevendo poi una ramanzina, in nome del rispetto dovuto ai colleghi più anziani, accompagnata da due robusti calci nel di dietro. Evidentemente non era ancora il suo tempo, ma sarebbe stata proprio quella personalità, insieme ai suoi piedi, a fare del piccolo Renzo un grande giocatore.

Sarà lo stesso De Vecchi a raccontare che suo padre Enrico “non perdeva una partita del Milan”; chissà quanta emozione provò, nell’assistere al precocissimo esordio in prima squadra del suo Renzo, allora appena quindicenne; chissà poi quanto orgoglio, nel vederlo diventare in breve tempo una bandiera del suo Milan, invocato a gran voce dagli spalti, dove la gente si dava di gomito al suo ingresso sul terreno di gioco e, indicandolo, esclamava in dialetto lombardo: “ma quel lì l’è el fieù del Signur!”.

 

Renzo De Vecchi e la Nazionale

Il successo con la maglia rossonera attirò sul giovane De Vecchi le attenzioni della neonata Nazionale italiana, che non vestiva ancora l’iconico azzurro ma una tenuta bianca. Il giorno del suo debutto con l’Italia, avvenuto il 26 maggio 1910 in un match contro l’Ungheria, il piccolo Renzo aveva solo 16 anni, 3 mesi e 23 giorni, diventando così il più giovane giocatore ad aver mai vestito la maglia della Nazionale, record tutt’oggi imbattuto.

Quella partita, che rappresentava la prima trasferta all’estero dell’Italia, terminò purtroppo con una sonora sconfitta per 6-1, ma De Vecchi serbava comunque un bel ricordo di quel viaggio a Budapest; la mamma lo aveva accompagnato alla stazione, per affidarlo ai dirigenti, e il piccolo Renzo si accorse subito di essere l’unico sul treno ad indossare ancora i calzoni corti, in mezzo ai suoi baffuti compagni. In quel football d’altri tempi, De Vecchi entrò nel secondo tempo calzando le scarpe normali, non trovandosi più quelle da calcio!

Sarebbe stato il primo di 47 incontri disputati con la maglia della Nazionale, con cui De Vecchi partecipò a ben tre Olimpiadi: Stoccolma (1912), Anversa (1920) e Parigi (1924). Si trattava, almeno per l’epoca, di un vero e proprio record di presenze azzurre, che sarebbero però diventate molte di più, se non fosse stato per l’interruzione dovuta allo scoppio del primo conflitto mondiale.

 

Renzo De Vecchi approda al Genoa

Già prima della Grande Guerra, l’epopea dei pionieri britannici del Milan era ormai terminata e i migliori talenti rossoneri iniziarono a migrare verso altri lidi, causando il declino sportivo del club e facendo il vuoto di campioni intorno al giovane Renzo, che tuttavia si rifiutava di lasciare la squadra, trasformandosi così in una vera bandiera.

De Vecchi dava tutto per la maglia rossonera e soffriva nel vedere che il suo club non riusciva a ripetere i successi dell’era Kilpin. Tuttavia quel Milan non riusciva ad offrire concrete prospettive ad un giovane talento come lui, che alla fine del 1913, a 19 anni, era già una colonna portante del football italiano, venerato e stimato da tutti. Fu così che De Vecchi, in un’epoca in cui il calcio non poteva garantire il sostentamento economico di un giocatore, decise a malincuore di lasciare il suo Milan, per inseguire la prospettiva di un impiego ben retribuito.

In quel periodo Geo Davidson, il Presidente del Genoa, stava infatti lavorando alacremente per riportare il Grifone ai vertici del calcio italiano, dopo l’ultima vittoria del 1904, dando inizio a quella che oggi chiameremmo “una sontuosa campagna acquisti”. Per portare al Genoa il giovane talento milanista, Davidson sborsò la cifra record di 24.000 Lire! Se consideriamo che un operaio dell’epoca guadagnava circa 2 o 3 Lire al giorno, è chiaro che a un ingaggio di quel genere non si poteva proprio dire di no (anche se forse il nostro Giovanni De Pra avrebbe rifiutato).

Le regole federali del tempo imponevano però che il trasferimento di un giocatore da una città a un’altra, con conseguente cambio di casacca, avvenisse solamente per motivi di lavoro, pena pesantissime squalifiche. Fu così che il talentuoso difensore del Milan, allora impiegato alla Banca di Milano, venne assunto con un sostanzioso aumento di stipendio dalla Banca Commerciale di Genova, la cui offerta era molto più allettante delle modeste proposte della Pirelli!

Renzo De Vecchi fu il primo dei tasselli che Geo Davidson aggiunse alla formazione del Genoa, che avrebbe dominato la scena negli anni successivi. A Milano rimase il cugino Carlo, soprannominato ironicamente “il nipote di Dio”, che fece ovviamente rimpiangere il loro idolo ai tifosi rossoneri.

 

Renzo De Vecchi: difensore fuoriclasse e uomo copertina

De Vecchi giocava nel ruolo di terzino, ma non dobbiamo immaginarcelo nella stessa posizione di oggi. Nel modulo utilizzato all’epoca, la piramide, i terzini erano infatti i full-back, cioè due giocatori che si muovevano alle spalle di tutti, il cui compito era innanzitutto quello di tappare le falle di quello che oggi chiameremmo un 2-3-5. In pratica, tutti salivano all’attacco tranne loro! Il neo acquisto del Genoa si trovò quindi presto a giocare dietro al trio delle meraviglie BarbieriBurlando – Leale: era semplicemente una difesa leggendaria!

Il “figlio di Dio” non era però solo uno dei più forti terzini italiani dell’epoca: De Vecchi fu effettivamente il primo vero idolo calcistico a livello nazionale ma il suo mito travalicò addirittura il contesto sportivo. Sembra impossibile che un difensore centrale avesse raggiunto certi livelli di popolarità ma, di fatto, come una sorta di CR7 ante litteram, De Vecchi fu il primo giocatore di football italiano ad apparire su copertine di riviste, giornali e manifesti pubblicitari, che lo fecero diventare, come succede ai giorni nostri, un modello da emulare per i giovani. A differenza degli uomini copertina di oggi, De Vecchi non poteva però vantare un aspetto fisico così mirabile; al contrario, il “figlio di Dio” era basso di statura e, nonostante la giovane età, era riconoscibilissimo in mezzo al campo, a causa della sua vistosa calvizie!

In una partita di football l’aspetto esteriore, ovviamente, conta poco. De Vecchi era infatti un giocatore di grandissima classe, con una enorme personalità, che sapeva infondere sicurezza ai suoi compagni di squadra. Era famoso per il perfetto tempismo con cui anticipava i suoi avversari e la leggenda voleva che nessun attaccante fosse mai riuscito a superarlo in dribbling. Per diventare “il figlio di Dio”, in ogni caso, qualche gol deve pur averlo fatto; De Vecchi era infatti anche uno specialista dei rigori e segnò diverse reti dal dischetto durante la carriera.

Dopo la sensazionale vittoria per 3-2, ottenuta dall’Italia sui padroni di casa alle Olimpiadi di Anversa, Ettore Berra descrisse così, con lo stile aulico dell’epoca, il terzino del Genoa: “Stratega della difesa, aveva un piede fatato. Tutti i palloni finivano sul suo sinistro implacabile. Col gran naso al vento fiutava il pericolo come il nostromo fiuta l’avvicinarsi del fortunale”. Dopo una vittoria contro la Germania, Bruno Roghi opponeva invece lo stile del “figlio di Dio” al ruvido metodo di gioco teutonico: “Nel tumultuoso serrate della squadra tedesca, tutta forza, rudezza, ira, lo stile e la voce di De Vecchi sovrastavano la mischia. Un grande atleta e un impareggiabile incitatore”.

 

Renzo De Vecchi e il Genoa degli “Invincibili”

Arrivato a Genova, De Vecchi trovò un altro maestro che, dopo Kilpin, seppe affinare la sua tecnica e il suo carattere: stiamo parlando ovviamente del mister inglese William Garbutt, che rese il suo Genoa una squadra “invincibile”, anche grazie al suo nuovo difensore di razza.

Dopo un campionato di rodaggio, nel 1914-15 il Grifone era già alla testa della classifica, con due punti di vantaggio sulla seconda a una giornata dal termine. Lo scoppio della prima Guerra Mondiale interruppe la competizione sul più bello e molti atleti furono arruolati. Il titolo di campione nazionale venne poi assegnato al Genoa, creando un comprensibile malumore tra i rivali. Era però il primo trofeo dell’era Garbutt, a cui ne sarebbero seguiti altri.

De Vecchi, arruolato in fanteria nei pressi di Brescia, riportò a casa la pelle (a differenza del nostro Luigi Ferraris); potè così essere protagonista dei trionfi del Genoa nei campionati 1922-23, concluso senza subire nemmeno una sconfitta, e 1923-24, che culminò con l’assegnazione del primo vero scudetto, in sostituzione della medaglia del re. Fu dunque il Genoa il primo club a vincere un campionato italiano, nel lontano 1898, ma fu anche il primo club a cucirsi sulla maglia l’ancora oggi iconico trofeo tricolore.

Come purtroppo sappiamo bene, quel ciclo di vittorie fu interrotto dalla discussa debacle contro il Bologna nel 1925, avvenuta in circostanze poco chiare al culmine di una finale ripetuta per ben 5 volte, ma questa è un’altra storia. De Vecchi era tra i protagonisti di quel controverso campionato, che avrebbe potuto portare alla vittoria del tanto agognato decimo scudetto del Genoa. Non tutti, però, sanno che il “figlio di Dio” dovette assistere anche ad un’altra grande occasione persa, per cucire sul petto del Grifone l’ancor oggi sospirata stella.

Al termine della carriera da giocatore, nel campionato 1926-27, De Vecchi guidò infatti la squadra rossoblu dalla panchina, ricoprendo la carica di giocatore-allenatore, che mantenne per tre anni, per poi diventare solamente allenatore nel 1929-30. Fu proprio in questo campionato che il Genoa arrivò più vicino al suo decimo trionfo nazionale. Il Grifone, con il “figlio di Dio” in panchina, si contendeva il titolo con l’Ambrosiana di Meazza e, a tre giornate dal termine, aveva l’occasione di riacciuffare la rivale, staccata di soli due punti. Sul risultato di 3-3, a pochi minuti dal termine, venne assegnato un rigore in favore del Genoa. Purtroppo, però, il rigorista rossoblu Felice Levratto non se la sentì di battere dagli 11 metri, lasciando l’incombenza al compagno Banchero, che, sotto lo sguardo incredulo di De Vecchi, fallì la trasformazione dal dischetto. Era la fine di un sogno.

Chissà cosa pensò in quei momenti il “figlio di Dio”. Probabilmente gli passò per la testa che, se fosse capitata a lui quella occasione, si sarebbe presentato con coraggio davanti al portiere avversario e lo avrebbe giustiziato con freddezza. Alla delusione della finale con i Felsinei, De Vecchi dovette così sommare questa debacle, dolorosa per lui quanto per noi Genoani.

Rimane però il ricordo orgoglioso di un’epoca, in cui non era il Genoa ad essere continuamente privato dei suoi migliori giocatori, ma era anzi il Grifone a ghermire i campioni degli altri club con i suoi possenti artigli. Sembra impossibile, oggi, che Geo Davidson abbia bussato alla porta di un club blasonato come il Milan, per assicurarsi le prestazioni di uno dei migliori fuori classe in circolazione. Chi lo avrebbe mai detto, però, che bussando alla porta del Diavolo ne sarebbe uscito…“il figlio di Dio”?

Spesso, quando ci troviamo aggrappati a un risultato negli ultimi minuti di gara, il nostro sguardo ansioso si alterna freneticamente tra il cronometro e il cielo, dove sembriamo cercare una sorta di divinità del calcio. Forse non esiste un dio del football, ma suo figlio è esistito di sicuro e vestiva una casacca a quarti rossoblu.

 

 

Andrea Stegani
Andrea Steganihttps://www.realtagenoana.it/2021/02/05/mio-padre-genoano/
47 anni, grafico web designer. Il Genoa è la mia malattia fin da bambino. Mi ritrovo molto in questa citazione: non amo il calcio, amo il Genoa!

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