Mio padre è l’ultimo di sette figli. Nato in Calabria, venne a Genova all’età di quattro anni con tutta la famiglia in cerca di fortuna. Nessuno ha mai creduto in lui. Non era cattiveria, era solo ignoranza, l’ignoranza sincera di una povertà che ha scelto te. Nei primi anni dormiva spesso nella baracca delle galline insieme al suo cane lupo, che lui amava tanto. In casa non c’era posto per tutti. Infine finì in un collegio, da cui scappava ogni fine settimana per tornare a casa. E dove puntualmente veniva riportato. Mio padre lavorò sempre, dall’età di 13 anni, duramente, senza un lamento.
Mia madre è la più grande, anche lei di sette figli, nata in Calabria e venuta a Genova prima delle scuole elementari. Altra famiglia in cerca di fortuna, altra famiglia numerosa in cui era possibile avere cibo, affetto, allegria, ma non certo il supporto economico per un abito, un gioco, un capriccio, gli studi. Anche mia madre non ha avuto la possibilità né di studiare, né di “perdere tempo” alla ricerca di sé stessa, della propria identità, delle proprie propensioni. Erano anni diversi, molto diversi da questi, dove probabilmente c’era anche più allegria, spensieratezza e semplicità, ma dove certo pochi potevano avere accesso agli strumenti di crescita culturale a cui oggi possono accedere, almeno nel nostro Paese, quasi tutti.
Mio padre e mia madre si conobbero quindi a Genova, giovanissimi.
Quando mio padre sposò mia madre lui aveva 21 anni, mia madre 18, ed il bouquet di fiori da portare all’altare lo pagò la famiglia di mia mamma perché lui non aveva i soldi nemmeno per quello. Io nascerò 9 mesi esatti dopo il giorno del matrimonio.
Io vengo da questo. Io sono questo.
Mio padre trovò una occupazione stabile in Ferrovia come operaio cantoniere, lavorando manualmente sui binari. Negli anni, con ottimismo, determinazione, sacrificio, studio, arrivò al massimo livello del personale viaggiante. La mamma è una persona dolce, buona, per molti versi apparentemente debole, sensibile. Ma mio padre senza di lei non sarebbe riuscito a fare quello che ha fatto. Lei aveva bisogno della sua forza, lui aveva bisogno del suo sostegno.
Assegnarono ai miei genitori un appartamento popolare delle Ferrovie dello Stato in cima ad una collina in Val Polcevera, dove ancora adesso mio padre e mia madre abitano.
Non conosco posto più brutto. Non c’è posto che io ami di più.
Sono nato lì, sono cresciuto lì. In un piccolo palazzo grigio di cinque piani e dieci appartamenti, con le persiane di un azzurro intenso, sulla linea Genova Milano, a fianco di una piccola stazione dismessa nel 1970, pochi mesi dopo la mia nascita. La strada finisce sotto casa mia, in un piazzale in asfalto dove ho giocato, corso, riso, pianto, sognato, con altri bambini.
E’ stata una bella infanzia, è stato un bel tempo.
In fondo al piazzale, tra i castagni che costeggiavano un lato del cortile, si apriva una piccola strada pedonale di campagna. Quelle strade con le mattonelle rosse ed il muschio nelle fessure. Puntava subito in discesa per qualche metro in mezzo agli alberi, poi ancora giù per una settantina di metri dopo una rapida curva a destra. Passando sotto il viadotto umido e buio della ferrovia la strada prosegue nei boschi dietro casa mia verso il piccolo paesino di San Biagio. Circa mezz’ora a piedi tra prati, campi coltivati, tratti di bosco buio, ed una piccola strada ferrata larga non più di un metro e mezzo, di quelle che oggi non esistono più.
Mi ha sempre fatto paura quel sentiero.
Mio padre aveva un piccolo orto coltivato poco oltre il viadotto, e a volte mi portava con lui. Lo aiutavo a dare acqua alla terra che lavorava nel tempo libero, lo accompagnavo qualche volta anche solo perché me lo chiedeva. Non avevo paura vicino a lui. Mi sentivo al sicuro. Ma non mi piaceva andare nell’orto.
Soprattutto quando lui si fermava per finire un lavoro e mi chiedeva di tornare a casa prima di lui. Avevo paura, paura di fare quei 5 minuti di percorso da solo.
Non lo avevo il coraggio di dirgli che avevo paura. Lo vedevo così sicuro di sé, così forte, non volevo sembrare stupido, debole. Non volevo deluderlo. L’orto era esposto al sole, ma per tornare a casa dovevo passare sotto quel viadotto, dentro un piccolo bosco fitto di alberi alti che nascondevano il cielo. C’era silenzio, un silenzio che mi faceva tremare le gambe, e poca luce sotto la fitta vegetazione. Lo salutavo e mi incamminavo facendo finta di niente, ma avrei preferito rimanere lì con lui fino a tardi. Anche se odiavo quell’orto, e tutte le cose che mio padre mi faceva fare lì.
L’ultimo tratto in salita, ormai in preda all’ansia, lo facevo sempre di corsa, e sempre con la stupida paura che dietro di me ci fosse un rumore, un movimento, un bisbiglio, se non addirittura qualcuno che cercasse di prendermi.
Eppure non ho mai fatto niente per evitare quel sentiero. Non per coraggio, non ero coraggioso e non lo sono nemmeno oggi. Ma sono sempre stato orgoglioso. Detesto le mie debolezze, detesto tutto quello che mi fa sentire inadeguato, insufficiente, stupido. Mi dicevo: ”Se papà non ha paura, nemmeno io devo avere paura. Quindi smettila di fare il bambino.”
Ma io ero un bambino. Avevo dieci anni. Non potevo sapere che quelle debolezze mi avrebbero accompagnato per tutta la vita, con colori diversi, dimensioni, prospettive, profondità, diverse.
Le paure, come molte altre cose, infatti sono cambiate. Sono “cresciute” anche loro, insieme a me. In quantità, in qualità, in densità. Prima era la paura di non essere un buon calciatore, come papà forse sperava. Poi la paura di non sapermi difendere da qualche ragazzino arrogante che giocava a fare il duro con me. Poi la paura di non essere abbastanza bello per una ragazza. Poi la paura di non riuscire ad avere quella ragazza. E ancora la paura di non sapere fare l’amore con una ragazza. E poi la paura di essere lasciato, da una ragazza. La paura di perdere mio padre, di perdere mia madre, la paura di non essere all’altezza dei miei studi, dei miei genitori, delle loro aspettative, delle mie aspettative, dei miei sogni. La paura di amare, la paura di non amare, la paura di non essere amato, perfino la paura di essere amato. La paura degli altri, la paura dei miei pensieri, la paura della mia malinconia. La paura della malattia, della solitudine, la paura di invecchiare, la paura della vita.
La paura della mia paura, delle mie paure.
Io pensavo fosse paura di quel sentiero. Ma non era il sentiero. Ero io. Sono sempre stato io.
La paura.
Pensavo che crescere fosse diventare come mio padre, per come lo vedevo io. Ho i miei miti, nella musica, nella cinematografia, nel calcio, nella scrittura, nella mia fantasia. Ma è lui, è sempre stato lui, il mio punto di riferimento. Non è una questione di successi, risultati, traguardi. E non è nemmeno il fatto che sia mio padre.
L’ho visto affrontare la vita, anche in momenti di grandi difficoltà che ricordo ancora, sempre da uomo. E non saprei definire con esattezza cosa significhi comportarsi da “uomo”. So che quando sono in crisi, quando mi sembra di non farcela, quando mi sento, ancora adesso, debole, inadeguato, io penso a come reagirebbe mio padre. Ecco, comportarsi da “uomo”, per me, è comportarsi come si comporterebbe mio padre.
Mio padre è molto concreto, pratico, deciso, determinato. Pochi fronzoli, poca filosofia. Lui non ha avuto né il tempo né il modo di occuparsi di filosofia, ha dovuto darsi da fare per occuparsi di sé stesso e della propria famiglia. Un tempo non lo capivo, pensavo fosse una persona poco flessibile, poco disposta al dialogo, alla comprensione del prossimo. Poi sono cresciuto anche io, ed ho capito che da lui avevo bisogno di questo.
Ne avevo bisogno proprio perché da mia madre avevo già preso la mia seconda metà. Quella più sensibile, quella forse più comprensiva, la parte più sofferente e indecisa, quella più aperta al dubbio, all’insicurezza.
Ma io avevo bisogno di entrambe le cose. Come loro avevano bisogno uno dell’altro. Una parte più eterea, più silenziosa, più aperta. Una più decisa, concreta, solida. Non potrei vivere senza una delle due, mi sento entrambe le cose.
Avevo 14 anni quando è morta la nonna, la madre di mio padre. Lui aveva 35 anni. E’ andato a rispondere al telefono, poi si è seduto sul divano di velluto con la testa tra le mani, e si è messo a piangere. Non avevo mai visto mio padre piangere. Sono rimasto in piedi a guardarlo senza riuscire a dire una parola, e senza avvicinarmi. Non ero capace di parlare come oggi, ma soprattutto non ero capace di abbracciare mio padre. E non lo sono nemmeno oggi, non l’ho mai fatto.
Quel giorno ho capito che mio padre non era tanto diverso da me. Quel giorno ho visto nei suoi occhi la debolezza, per la prima volta, e per la prima volta mi sono sentito meno in colpa per le mie. E un pochino meno solo.
Forse quel sentiero spaventava anche lui. Forse quel giorno ho capito che non avrei potuto sconfiggere mai del tutto quella paura, ma che avrei comunque potuto, dovuto, trovare la forza, il coraggio, di camminare su quel sentiero, buio, silenzioso, che mi faceva tremare le gambe, che mi faceva sentire stupido, debole, insufficiente.
Come aveva fatto lui, come avevano fatto loro.
Non ho mai nominato la parola Genoa, perché non è necessario. Su quel sentiero è sempre stato dietro le nostre spalle, davanti ai nostri occhi, dentro il nostro cuore, sotto i nostri passi, nel soffio dei nostri respiri.
Luca Canfora