Tutti siamo soliti usare l’appellativo “Mister”, quando ci riferiamo a un allenatore di calcio; poco importa che si stia parlando del tecnico della Nazionale o della scalcinata compagine del quartiere. Quel personaggio che gesticola a bordo campo è per ognuno di noi, semplicemente, il “Mister”.
In pochi sanno che quell’appellativo venne usato per la prima volta nel 1912, quando l’ex calciatore e allenatore britannico William Garbutt si sedette sulla panchina del Genoa. Per dirla tutta, la gente di Genova lo chiamava “Mister pipetta”, a causa della pipa che, da vero gentleman inglese, portava sempre all’estremità della bocca.
Oggi a Genova la pipa evoca purtroppo un’altra icona, diciamo così, molto colorata. Il “Mister”, invece, è il “Mister” in tutta Italia, anche se non basta questo a definire Garbutt come “il primo vero Mister”. Se vi ho incuriosito anche solo un po’, vi starete chiedendo “chi era William Garbutt?”.
William Garbutt: ragazzo con il calcio nel sangue
Garbutt nacque nel 1883 in un quartiere periferico di Stockport, vicino a Manchester, da dove era difficile guardare al futuro con occhi sognanti, soprattutto per chi come lui, in condizioni economiche non certo agiate, lavorava sin da ragazzino in una fabbrica di scatole. Nel suo futuro, però, c’erano un prato verde ed un pallone.
“Garbutt ha il calcio nel sangue; la sua classe e il suo stile sono davvero incomparabili”, scrisse di lui Ivan Shape, famoso giornalista sportivo britannico, vedendolo giocare nel 1910.
Willy, come lo chiamavano i suoi compatrioti, venne notato dal Reading quando, all’età di 19 anni, giocava nella squadra dell’esercito. Nel 1905 debuttò in First Division nel Woolwich Arsenal, antenato dei più noti Gunners, prima di trasferirsi al Blackburn Rovers, dove concluse sfortunatamente la carriera a soli 29 anni. Il ritiro avvenne a causa di un rovinoso infortunio, che, con un velo di rammarico, ci viene così narrato da Vittorio Pozzo, storico C.T. della Nazionale azzurra:
«[…] per una combinazione straordinaria, vidi Garbutt terminare la sua carriera di giuocatore […]. Ero andato a Blackburn […] per l’incontro Blackburn Rovers – Manchester United. Garbutt giuocava come ala destra per il Blackburn. […] Verso la fine del primo tempo, proprio di fronte a me che stavo in prima fila dei posti popolari, in trincea, col viso proprio a livello del terreno di giuoco, Garbutt tentò di battere un avversario spedendo la palla sulla destra e lui girando a sinistra dell’ostacolo vivente. Cadde, non si rialzò. Nel brusco scarto si era prodotto una profonda lacerazione all’inguine. […] La sua carriera di giuocatore era finita.»
William Garbutt: dal campo alla panchina
Se dovessimo trovare un elemento, un minimo comune denominatore, che definisca la carriera sportiva di Garbutt, oltre alla sua iconica pipa s’intende, sarebbe certamente la linea laterale. Quando giocava come ala, wing avrebbe detto lui, correva proprio lungo quella linea bianca; la stessa striscia di gesso che presidiò nel secondo tempo della sua carriera, quando si trovò ad osservarla da bordo campo, nel ruolo di allenatore.
Il suo primo e brevissimo incarico fu proprio con il Blackburn ma la sua fortuna iniziò nel 1912, quando venne contattato dal Genoa. I rossoblu cercavano infatti un allenatore per ristabilire la supremazia nazionale, perduta dopo lo scudetto del 1904.
William Garbutt: professione “Mister”
Nulla di eccezionale, starete pensando; cercare un nuovo allenatore è quello che fanno tutte le squadre quando le cose non vanno (noi Genoani lo sappiamo bene). Il punto è che, prima di allora, nessuno lo aveva mai fatto. In quegli anni, la filosofia predominante era quella legata al dilettantismo puro; il Genoa, in netto anticipo sui tempi, stava dunque facendo un passo importante verso il professionismo.
Garbutt, d’altronde, fu chiarissimo: era pronto ad affrontare questa avventura genovese con entusiasmo, ma solo a patto che ne valesse la pena da un punto di vista economico. Non sappiamo su che cifra si chiuse l’accordo ma di lì a poco, nel 1915, Garbutt guadagnava 4.800 Lire annue; uno stipendio sontuoso in rapporto al costo della vita dell’epoca.
Anche qui, mi direte, è tutto nella norma, se non fosse che allora, qui in Italia, era ancora vietato pagare i calciatori, figuriamoci l’allenatore, una figura che era ancora tutta da inventare. In quegli anni le squadre venivano infatti scelte e preparate dal capitano o da un dirigente.
Come potete immaginare, nella società più inglese della penisola, ci si ingegnò all’italica maniera; Garbutt divenne consulente per una ditta del dirigente rossoblu Davidson e venne pagato sotto banco, gonfiando bollette e ricevute.
William Garbutt: la rivoluzione degli allenamenti
Da quel momento, fare l’allenatore non fu mai più come prima. Oltre a farsi chiamare “Mister”, come era normale per un Inglese, e favorire l’approdo al professionismo del calcio italiano, Garbutt lasciò il segno anche e soprattutto perché cambiò in modo radicale la figura dell’allenatore.
In quegli anni dominati dalle bianche casacche della Pro Vercelli, introdusse infatti un metodo di allenamento che in Italia non si era mai visto. I giocatori venivano allenati il più possibile nel ruolo che occupavano in campo, con una tattica così descritta dallo stesso Garbutt:
“Un buon allenamento per una coppia di terzini è quello di calciare il pallone l’uno a l’altro da una distanza di circa 40 o 50 metri e di cercare di riceverlo da qualsiasi direzione provenga e, qualche volta, prima che tocchi terra, mantenendolo nello stesso tempo basso e appoggiandoselo l’uno coll’altro pur tenendolo sempre nel campo da giuoco. Anche gli half-backs debbono avere un pallone per conto loro, ed il loro allenamento fra l’altro consiste nei colpi di testa e nei passaggi coi backs. […] Secondo la mia opinione il segreto dei nostri successi sta nel metodo di giuoco che è quello che gli Inglesi chiamano open game, cioè giuoco aperto, giuoco dai lunghi passaggi e nell’allenamento fisico che presenta i giuocatori nelle più favorevoli condizioni”.
Garbutt sembrava avere il professionismo nel sangue e svolgeva il suo ruolo con il piglio del perfezionista. Chi calciava con un piede solo veniva costretto ad allenarsi con il piede “buono” scalzo, così da dover calciare con l’altro ed educarlo al tocco.
Per affinare ulteriormente il controllo di palla dei suoi allievi, Garbutt fissava sul campo di allenamento una serie di pioli, sempre più ravvicinati, che dovevano essere superati zigzagando palla al piede. Per migliorare il colpo di testa dei suoi ragazzi, li faceva invece saltare ad impattare palloni, sospesi in aria tramite una fune, che veniva sollevata sempre di più.
Se qualcuna di queste pratiche vi suona familiare, sappiate che dovete a lui le vostre fatiche, sempre che siano servite a qualcosa!
Il Genoa di Garbutt era impostato secondo i canoni del calcio inglese: potenza atletica, lanci lunghi e grande equilibrio tra i reparti. Con questi capisaldi, i rossoblu vinsero il titolo del 1915 e si aggiudicarono due campionati consecutivi nel dopo guerra. Solo le note vicende con il Bologna del 1925 negarono ai suoi ragazzi il terzo scudetto consecutivo.
In un Genoa quasi totalmente composto da giocatori britannici, il “Mister” inglese non ebbe difficoltà a trasmettere la propria ferrea filosofia, così riassunta in un suo celebre discorso, che sussurra ai nostri cuori genoani una frase del compianto Franco Scoglio, molto simile nella sostanza:
“Se tra voi c’è qualche fuoriclasse lo sopporterò, altrimenti per fare una grande squadra mi accontenterò dei grandi giocatori che sono quelli che hanno coraggio ed un grande cuore. Chi non possiede queste virtù non è né un grande né un mediocre giocatore, è soltanto nulla e quindi può vestirsi ed andarsene subito. Quelli che intendono restare devono farsi trovare tra dieci minuti, in tenuta atletica, nella mia stanza perché voglio stringere loro la mano e conoscerli personalmente”.
William Garbutt: la prima “campagna acquisti”
Proprio come avrebbe detto qualche anno dopo il “Professore”, i calciatori allenati da Garbutt dovevano avere attributi “tripallici”. Sarà forse anche per questo motivo che, come un manager dei nostri giorni, intervenne personalmente in quella che oggi chiameremmo “campagna acquisti” e che allora, come detto, era vietata dai regolamenti federali. Anche in questo campo, il Genoa correva a passi decisi verso il professionismo.
A quei tempi passare dall’Andrea Doria al Genoa non era considerato uno scandalo da nessuno; fu così che, su indicazione di Garbutt, i dirigenti rossoblu si assicurarono le prestazioni di Sardi e Santamaria, allora in forza alla squadra doriana, e di Renzo De Vecchi, giovane giocatore del Milan e della Nazionale. Si trattava, come scrisse il Guerin Sportivo, di “comperare i più noti indigeni in commercio”.
Per pagare i giocatori, che ufficialmente non potevano essere professionisti, si usarono i soliti sotterfugi, se non che Sardi e Santamaria vennero sorpresi ad incassare l’assegno. La loro squalifica a vita, decisa inizialmente dal tribunale federale, venne poi ridotta a due anni, al grido di “meglio quattro campioni in meno ma un po’ d’onestà in più”.
Vista la piega presa oggi dal calcio-business, viene da pensare che i sostenitori del dilettantismo avessero forse una parte di ragione. L’altro lato della medaglia erano però i timori della borghesia tradizionale, che, preoccupata per la democratizzazione della società, non vedeva certamente di buon occhio l’arricchimento del mondo operaio tramite la pratica sportiva.
A torto o ragione, il Genoa e Garbutt traghettarono il calcio verso ciò che è oggi. Poco ci importa se, da allora, il Grifone non volò mai più così in alto; a scaldarci il cuore, rimane la consapevolezza che le radici del calcio, almeno quello italiano, affondano inequivocabilmente nella Genova rossoblu e, per questo, dobbiamo dire grazie anche a Mister Garbutt.
di Enrico Barbieri